Dopo il burlesco musicale del suo maggior successo (The Blues Brothers), dopo il film d'orrore (il raffinato Un lupo mannaro americano a Londra) e dopo quello fantastico (l'episodio di Al CONFINI della realtà), John Landis si rifà ad un altro celebre filone hollywoodiano, la commedia degli anni trenta e quaranta.
Landis, dopo le regie piuttosto approssimative dei suoi primi film ha imparato le regole del gioco: questa vicenda dei due cinici capitalisti che decidono d'invertire i ruoli fra il loro direttore (bianco) e un vagabondo (negro) incontrato per strada, il tutto per un loro capriccio di lusso travestito da studio di comportamento, è condotta in modo impeccabile. E una trama tutt'altro che inedita: Frank Capra l'ha sfruttata in passato. Ed il film è pieno di riferimenti alle commedie di Hawks e di Cukor (la scelta di Filadelfia, patria del perbenismo negli affari), di Mac Carey o di Lubitsch
Una somma di plagi, allora? Non proprio: perché Landis ha sposato lo stile di quel tipo di film e di quell'epoca con tale facilità da far volgere Trading places dalla parte del ripensamento, della rivisitazione critica. Sennonché... Sennonché a furia di essere fedele, di essere preciso, l'autore arrischia di apparire servile. La sceneggiatura, impeccabile nella sua meccanica, è anche tremendamente prevedibile oltre che un po' tirata per i capelli. Gli attori sono bravi: ma Eddie Murphy, che carica un filo le tinte, è meno irresistibile che in 48 ore; e Aykroyd meno spassoso di quando faceva coppia con John Belushi. Landis, insomma, dimostra di saperci fare: ma nel contempo perde la grinta. Il solo momento nel quale si lascia andare alla sua vena per la dismisura burlesca dà immediatamente il meglio del film: è quando tutti salgono in maschera sul treno pazzo, ed il cattivo finisce nella gabbia del gorilla a fargli da fidanzata.